Dentro al tuo dolore

Il dolore. Le persone vanno e vengono nella nostra vita. Alcune le trovi già non appena fai il tuo ingresso al mondo, una cerchia ristretta che poi ti insegneranno a chiamare “famiglia”. Termine che, crescendo, espanderai anche ad altre persone che in realtà non hanno legame di sangue con te ma di cuore.

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Sono scelte, a volte dettate da un meccanismo più grande di noi e che ci è sconosciuto, altre, invece le veicoliamo noi per il nostro tornaconto personale. Indifferente da quale via si persegua, alla fine se restano è perché qualcosa, un legame, una connessione, la lunghezza d’onda dove sintonizzarsi, c’è.

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Da sempre sono stato una persona empatica ma ho sempre respinto questa mia peculiarità. Troppo vicino al prossimo, troppo affine con quello che mi capitava attorno, troppo attento a cogliere le sfumature che si disegnavano in mia presenza. Iniziando a capire quali potessero essere le potenzialità di questa dote, rimasi affascinato dal grado di lettura che potessi avere degli altri; anticipavo, capivo, comprendevo e ne andavo fiero. Sì, tutto bello, tutto emozionante fino a che non ti ritrovi a sentire l’animo e le emozioni di qualcuno che è avvolto dal dolore. Più è grande e forte il sentimento e più il ritorno che un empatico riceve è maggiore. Quando le emozioni sono positive, sono un beneficio per te: ti caricano, possono donarti energia in più, una spinta e anche forza da applicare. Quando invece le emozioni sono negative perdi tutto quello che avevi acquisito e finisci che tali emozioni vadano a risucchiare quello che è tuo, a risucchiarti.

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Tu sei come un ripetitore e non puoi decidere quale tipo segnale ricevere e quale no. No. Tu prendi tutto con le conseguenze del caso. Non è bello, niente affatto ragazzi. Non si tratta della scena della vostra serie TV preferita, non avete il ruolo del protagonista di un Manga che è speciale rispetto agli altri ma alla fine la spunta. Nonostante si pensi a qualcosa di astratto, assurdo, suggestionato dalla mente, è qualcosa che senti in modo tangibile. Puoi sentirti come in grado di volare, di scalare pareti impervie oppure ricevere un colpo ben assestato alla bocca dello stomaco che ti lascia senza forze e senza possibilità di ripresa immediata. L’immaginario più azzeccato che riesco a materializzare nella mia testa è di qualcuno che, con un cucchiaino, pian piano scava dentro di me, fino alle viscere. E tu stai lì, inerme e incapace di reagire, bloccato ad essere uno spettatore non partecipante.

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Non puoi dire niente, non ne sei capace e seppur ci provi, tutto quello che ne esce non è altro che il sillabare elementare di un bambino che da poco ha capito come articolare le sue prime frasi. Sei triste, sei svuotato e non lo hai deciso tu. Non c’è stato nessun evento che ti riguardi in prima persona, che ti abbia ridotto così ma stai ugualmente male. Maggiore è il dolore che prova la persona che ti è vicina -a livello emozionale- e maggiori saranno le emozioni ti travolgeranno come uno schiacciasassi.

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Non v’è colpa in nessuno, fa parte della vita, del suo inesorabile ciclo che -come un cerchio perfetto- al termine del suo completamento inizia ad essere ma finisce di esistere. Tutto questo per dire cosa? Che anche avendo e conoscendo i risvolti positivi e non, di una dote rara, rimango impotente nel poter dare il giusto apporto quando a soffrire è qualcuno che mi è vicino.

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I gesti, le parole. Tutto sembra essere un copione trito e ritrito, che non ha anima, troppo volte ascoltato come quel disco rotto lasciando andare al oltranza, fino al suo consumo. Eppure vorresti dire di più, farti carico tu di un dolore che non ti appartiene e che, agli occhi di esso, tu resti solo uno sconosciuto senza volto né sostanza.

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Vorresti fare di più, vorrei fare di più. Ti impegni, lo dici, tenti di metterci del tuo per dimostrare che davvero non stai sfogliando il libro delle frasi fatte. Cerchi di arrivare, di far arrivare, come queste poche parole che ti dedico mentre sto seduto qui, dentro al tuo dolore.

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