Oggi vi parlo

Mi saranno passate per la mente almeno un centinaio di immagini con altrettanti significati per ognuna. Cercherò di riversare tutto d’un botto, come si fa quando si rovescia violentemente con un calcio un secchio pieno d’acqua, tutto quello che ho dentro.

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Vuoto. Svuotato. La percezione di essere una matrioska madre senza il suo seme. Non leggero, inaspettatamente pesante e senza forza, la voglia di lottare portata via come l’anima risucchiata da un Dissennatore ma senza andare mai davvero a terra. Trascinarsi giorno dopo giorno, un pugile che al suono della campanella -round dopo round- si rialza dallo sgabello e si appresta a dirigersi verso il centro del ring anche se non desidera altro che gettare la spugna e fermare tutto.

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Una mano che, d’improvviso, ti trafigge il petto, ti buca lo sterno e rende arido il tuo corpo che pian piano inizia a sgretolarsi come la terra arida su cui il Sole picchia incessante, giorno dopo giorno.

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Ascolti musica senza mai ascoltarla davvero. Poche le note, le parole che il cervello realmente percepisce mentre la mente viaggia, vola, vorrebbe scappare. La raffigurazione di un uccello libero di volare fin dove gli è permesso dalla corda legata attorno alla sua zampa.

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Errori. Passati e presenti. La testa a quelli futuri, al ripetersi degli stessi, a come comunque le cose non sarebbe andate bene lo stesso anche se le scelte fatte fossero state diverse. La consapevolezza di aver fatto quello che doveva essere ma che, nonostante ciò, non si ha ancora quello che si vorrebbe. Un continuo confronto con te stesso, sbaragliando via le scuse che tentano di accavallarsi, di consolarti, di convincerti e di farti mentire.

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Il tuo corpo è un armadio da cui prendere un capo, un indumento da indossare ma che non viene ripopolato e pian piano va a svuotarsi.

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La paura che quando ti fermerai -dopo essere andato a mille per molto tempo- poi tutto ti cada addosso all’unisono. La forza di voler combattere e battere tutto ciò, il timore di non farcela e di capire cosa ne rimarrà dopo il crollo. Il nervoso di poter mascherare tanto, quasi tutto, tranne gli occhi e soprattutto di essere scoperto da chi invece non si meriterebbe di saperlo, di vederlo.

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La libertà, la voglia di essere libero in questo mondo di costrizioni. La forza di poter essere e dire ciò che si è e non preoccuparsi. Non il dover fare “la cosa giusta” ma piuttosto “quella che si vuole”. L’elevarsi in un qualcosa che vada oltre la normale concezione, che puoi solo accettare senza dover dare una spiegazione scientifico-razionale.

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Il peso del silenzio della tua stanza. Gli spazi che si amplificano così come quei piccoli rumori che, in compagnia, nemmeno riusciresti a sentire. La luce spenta, le zone buie, l’indefinito, gli angoli vuoti, gli spazi incompleti, le parti mancanti e quelle da riparare. Il sentire ogni cosa, il riuscire ad avvertire anche il più piccolo cambiamento in te e negli altri. La voglia di riuscire a non vedere tutte queste cose, di poter essere più leggero e meno coscienzioso, responsabile e intelligente.

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La capacità di saper analizzare le situazioni, di poter mettere qui sopra la propria anima come la posta di una scommessa che va a scontrarsi con quella del banco, in un azzardo che chiamiamo tutti “vita”.

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La maledizione di saper arrivare a tanti, forse tutti ma il non riuscire a far entrare realmente nessuno se non per un periodo limitato. La visita che si riceve in carcere, sotto gli occhi e le orecchie di tutti, dove frenarsi, dove non puoi essere realmente tu. La parte recitata. L’essere circondato da nemici. La facciata a cui non puoi più rinunciare. L’istinto di sopravvivenza. La magia che non esiste più. Le parole che sembrano sempre più povere. I concetti che non vogliono più uscire. Le domande a cui non dai più risposta. Le cose che lasci scivolarti addosso e morire.

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Ora sto meglio ma non bene.

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