E’ quando subentra il buio che il silenzio fa rumore
E’ quando subentra il buio che il silenzio fa rumore; quando si è soli ed il peso di ogni singolo suono diventa un macigno che non ti lascia nemmeno dormire.
Quando perfino il tuo respiro può essere ascoltato anche da un’altra stanza e la tua agitazione diventa quella degli altri.
Invece quando si è soli questa battaglia diventa una lotta estenuante a più riprese che sfianca mente e corpo, annebbiando i ragionamento ed aggrovigliandoli sempre di più, sino a farli incastrare.
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E’ quando subentra il buio che riaffiorano le paure e gli incubi; il momento in cui i “mostri” tornano a galla e si aggrappano a te, tirandoti verso il fondo, togliendoti il respiro, facendoti sudare, lasciandoti sullo stomaco un peso asfissiante.
Ed è proprio in quei momenti che torno a vacillare, ad essere fragile e a crollare: nel buio solitario dove nessuno può vedermi e sentirmi se non tu, la mia coscienza, che scuote la testa esasperata per avermi trovato nuovamente così.
Raffiorano i “se”, i “ma”, i “però”, gli “eppure” e tutte le cose più brutte che ancora non riesco a gestire e che vorrei lasciarmi alle spalle come gli stessi “vorrei”.
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Nella mia testa si ripresenta quel giorno, ormai è un evento che ricorre spesso, purtroppo.
Sono in ufficio, in un venerdì come tanti, anzi, forse pure tra i più piatti che ci sono stati; sono lì che ho appena deciso di andare via perché il lavoro e la giornata ormai erano terminate e potevo rincasare.
Una telefonata da parte di mia madre e subito che rispondo sia perché difficilmente mi chiama in orario d’ufficio, sia perché il periodo era abbastanza delicato e si viveva sul chi-va-là.
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Papà si è sentito poco bene, forse per qualcosa andato male a pranzo ed è stato portato via dall’ambulanza; qualcosa di gestibile -visti i tempi- e tanto stavo andando via, quindi non c’era preoccupazione: ci saremmo tutti trovati al pronto soccorso per vedere come stava, dato che era da solo.
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Stavo tranquillo e facevo la strada di ritorno con un amico come ormai eravamo soliti quando ci ritrovavamo a capitare negli stessi giorni in ufficio; racconto sommariamente i fatti mentre si percorreva la ciclabile per poi dividerci ognuno per la sua direzione e proseguire.
Quella frase “Oh, fammi sapere che ti dicono” ha risuonato in me forse più del dovuto, smuovendo un timore che stagnava sul fondo del mio stomaco; rispondo leggero come faccio solitamente perché le mie preoccupazioni non devono diventare quelle degli altri.
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Ricordo solo che, ritrovatomi solo in quella lunga e rettilinea pista, il sorriso svanì, come la luce delle giornate ancora corte di un inverno che aveva solo fatto capolino quell’anno; giù la maschera come il silenzio ed il buio mentre una strana angoscia iniziava a pervadermi.
Calcolo i tempi dalla macchina all’ospedale e mi dico che quando sarei arrivato, non avrei trovato nessuno perché tanto avevano già fatto, era una stupidaggine, un controllo zelante vista l’età avanzata.
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Di nuovo vuoto e arrivo lì, solito ambiente asettico in cui il distacco emotivo ne fa da padrone e ritrovo -oltre a mia madre e mia sorella- un altro amico che era lì per la sua bambina.
Ci ragguagliamo ognuno per i propri motivi ed io che subito mi preoccupo più per la sua situazione che per la mia; minimizzo perché tanto non c’è da preoccuparsi, nessuno si deve preoccupare.
Sorrido e ci scherzo su, tranquillizzo anche mamma che aveva incrociato papà al suo arrivo.
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Altro vuoto e poi una chiamata di papà che diceva che stava bene e che potevamo tornare a casa che lo tenevano sotto controllo: avrebbe passato la notte lì.
“Non è il cuore” ancora mi risuona la sua frase per rincuorarci e che gli avevano detto, che oggi invece è come una lama che bastarda mi trapassa da parte a parte, girando dentro le viscere e lacerando tutto quello che incontro.
“Non è il cuore” ancora rimbomba come un tonfo beffardo, quasi a perculare le nostre ragioni.
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Me la sono fatta andare bene, mi sono girato e sono andato via salutando tutti.
Non ho dato di matto allo sportello, chiedendo di voler vedere mio padre perché stava lì tutto solo e perché ero preoccupato.
Sarei dovuto entrare, lo avrei dovuto vedere e vedere com’erano i suoi occhi, come davvero si sentiva.
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Mio padre bestemmiava e bestemmiava anche abbastanza quando era arrabbiato, furioso.
Lo ricordo bene e ricordo pure che negli ultimi periodi lo sentivo molto di meno, sia arrabbiarsi che invocare Dio; eppure era credente, non so se religioso ma sicuramente credente.
Penso anche che qualche preghiera per mia madre l’abbia pure detta, attaccandosi a tutto pur di non perdere l’amore della sua vita.
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Ha sempre combattuto, raramente l’ho visto arrendersi agli eventi, piuttosto li metteva da parte se non li riteneva una priorità in quel momento ma dentro ho una sensazione che non riesco a togliermi, di quelle che poi finisci per crederci dato che una risposta non potrai più averla.
Quel giorno mamma ha avuto uno degli esiti più attesi per noi, notizia che appunto condivise con papà nella loro ultima telefonata -dove tra l’altro battibeccarono come loro solito- e dà lì il fatto di dirci di andare via e che era tutto ok.
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Io non ci credo che non si sentisse nulla, lui che mai aveva chiamato l’ambulanza prima d’ora; lui che -pur sbagliando- cercava di risolvere le cose da solo per non allarmare il suo intorno. Quel giorno non lo fece e sicuramente capì e magari fece una scelta, lui che poneva la sua famiglia anche davanti a sé stesso: prendi me ma salva il mio amore.
Un pò romanzata, lo so ma se non ci trovo una nota lieta, questo fatto di merda non lo riuscirò a digerire mai!
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Lui, più di chiunque altro, avrebbe fatto qualsiasi cosa perché quell’infausta notizia si risolvesse al meglio; la stessa che -a suo dire- “gli aveva tagliato le gambe”.
Ed io che me ne tornai a casa, seduto sul divano, nel buio della stanza con la luce artificiale dell’esterno ad illuminarmi parzialmente.
Quel telefono vicino ad aspettare, boh, non so cosa e poi quella chiamata di mamma, di nuovo “Ha chiamato l’ospedale, ci hanno detto di venire che papà non sta bene”.
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Era mezzanotte passata ed io non avevo capito assolutamente nulla (mia madre sì).
Convinto che fossimo stati convocati solo per prendere una decisione che lui non poteva prendere al momento; un fascio di nervi tesi mentre nel buio della notte guidavo con mia madre e mia sorella, nel silenzio quasi totale.
Di nuovo un rettilineo poco illuminato ed il nervoso a fior di pelle, stavolta le sensazioni erano più vive ma non c’era spazio per le rassicurazioni ma la maschera era sempre su perché non potevo crollare io, non davanti a mia madre.
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Arrivati lì, siamo come zombie, in una sala ancora più scarna di qualche ora prima.
Ci fanno entrare e attendere in una stanzetta ancora più piccola. Io sono confuso e di lì a poco, il mondo, la vita e qualsiasi mia concezione sarebbe stata ribaltata come si fa con un tavolo quando si ha un eccesso di furia.
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Nemmeno ce lo dicono, è mia madre che lo dice, che lo pronuncia ad alta voce e non c’è stata frase più vuota di quella che io abbia sentito “è morto, vero?” e boom!
Io non riesco nemmeno a girarmi, non riesco a guardare mia madre; sono semplicemente stordito, frastornato e chissà con che sguardo mi sono rivolto al medico “Ma che vuol dire?!”.
Un coglione.
Prossimo agli anta, che cazzo di domande fai di fronte alla notizia della morte di tuo padre?!
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Non mi capacitavo, era uno scherzo eppure nessuno rideva, nessuno parlava, solo i singhiozzi e lo straziarsi di mia madre; la paura, anzi, il terrore che potevo perdere in quel momento anche lei.
Ero pietrificato, inerme, non sono nemmeno riuscito a reagire, a sbraitare, a cacciare una lacrima perché dovevo essere forte e dare supporto a mia madre.
Ci portarono da lui, in mezzo ad altri sconosciuti, separati da un telo che a nulla poteva contro gli urli di mia madre.
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Sembrava finto, avvolto in quel telo come una larva che attende di diventare farfalla ed io un pupazzo, strascinato qua e là come quando eri piccolo e ti portavano a forza a fare una gita istruttiva e tu seguivi solo con il corpo -la mente era altrove- la guida che ti spiegava tutto.
Ma che vuoi spiegarmi in una situazione così?!
Ma chi le vuole le spiegazioni, io volevo solo che si svegliasse, che aprisse gli occhi e tornasse con noi ed invece ce ne siamo tornati a casa con una busta di plastica contenente gli effetti personali che quel giorno si era portato con sé.
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Dopo che ho riaccompagnato a casa mia madre e mia sorella, non ricordo più nulla, il vuoto totale.
Buio pesto come lo è ancora oggi quando, come adesso, sono nel silenzio della mia casa con la pioggia che tintinna sui vetri, mettendo quella dose di malinconia che aiuta la tristezza a cingerti le ossa, facendoti sentire totalmente inerme di fronte a fatti che non avrai modo di somatizzare.
