L’ho portata dove l’hai portata tu

L’ho portata dove l’hai portata tu, dove lei è voluta andare, seguendo abitudini che ora andranno a morire, seguendo la nostalgia di un tempo che non tornerà più.
In quei ricordi che sono ancora vividi e che iniziano a sbiadire, affiancati da un tempo al passato che da prossimo diventerà remoto.

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L’ho portata dove l’hai portata tu perchè finalmente si è decisa, perché era giusto che fosse così, perchè bisogna andare anche se fa male verso un futuro dove iniziano ad essere di più i posti vuoti che quelli occupati.

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Sai, a volte la vedo che si ferma e la mente vola chissà dove va, forse da te, a cercarti in un luogo che -per ora- è troppo presto che raggiunga.
Io non le dico nulla, faccio il vago e lascio correre, un po’ per lei ma soprattutto per me perché mi sto sempre più sgretolando anche io in un presente che non accetto e che non voglio che sia così.

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Mando giù il groppo, guardo altrove e cambio argomento perché non me lo posso permettere di cedere, non davanti a lei, non quando è proprio lei che sta cedendo e lasciandosi andare.
‘Sta cosa mi spezza di netto, dentro e fuori ed è sempre più precario mantenere un sorriso vero, uno sguardo che non trasmetta il crollo di macerie che si stanno accumulando sempre di più.

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Aspetto che io sia solo, a fare quattro passi, a quando chiudo la porta e mi isolo, a coricarmi nel letto, nel buio di un silenzio che mi benda gli occhi e mi scopre l’animo.
E piango, piango a dirotto come un tubo rotto che grida di essere riparato.
Piango per buttare via tutto, perché dentro c’è sempre meno spazio, tra i ricordi di te, i miei e quelli di persone che mi sono state vicine e mi hanno toccato fino a farmi vibrare.

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Da solo, perché le gambe sono le mie e se non mi reggono in questi momenti, chi mai potrebbe rialzarmi? Ed a terra non ci voglio stare, non ci voglio restare, non mi piace.
Mi nutro del dolore, di quei pensieri che fanno e han fatto male, di quelle parole che rimbombano come le percussioni sui tamburi. Per ricordarmi da cosa debbo allontanarmi e non cercare più, che stare bene è così utopico che accontentarsi sta diventando più uno snaturarsi, un eclissarsi da ciò che sei sempre stato ed ha conquistato tutti quelli che ti sono attorno.

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Rivivo luoghi, attimi, momenti che sanno di unione, di felicità e spensieratezza.
Svesto gli abiti del romantico perché sono troppo leggeri per questo freddo gelido sospirare che mi era dentro e mi fa male.
Voglio, vogliamo il calore anche d’estate perché a scaldare il cuore non sono le temperature ma i milioni di sguardi che ti abbracciano ogni volta che si posano su di te.

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Ed ora mi alzo dalla roccia su cui siedo, di fronte ad uno specchio d’acqua che ci ha visto sbocciare.
Mi alzo e lascio lì quel “me” che sta ancora vivendo quel suo momento perché adesso è arrivato il mio.

L’ho portata dove l’hai portata tu